Intervista di Marco Costamagna all’autore
Giotto era più avanti almeno di due secoli.
C’era una volta un pastorello chiamato Giotto di Bondone che , colto da un raptus di genio, distolse per un secondo lo sguardo dalle sue pecore, prese fra le dita un gessetto e tracciò sulla pietra, a mano libera, un cerchio perfetto.
Questa la storia che tutti conoscono per averla orecchiata sui banchi di scuola: per secoli gli immortali affreschi del pittore fiorentino vissuto sette secoli fa sono stati letti come l’opera di un “primitivo”. Grande, geniale, ma digiuno delle più elementari nozioni geometrico-matematiche che gli consentissero di incastonare le sue intuizioni visive in una struttura spaziale precisa e suddivisa in moduli coordinati.
Roberto Villa, che insegna pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti, a Torino, a questo problema ha di recente dedicato un volume di 130 pagine (“La terra è un cerchio. Canoni grotteschi tra racconto e misura”), giungendo alla conclusione che la chiave di lettura usuale, fornita dai romantici, “vada sicuramente rivista, direi addirittura ribaltata”. In che modo? Giotto in realtà fu un acuto conoscitore di formule e parametri di tipo geometrico, che applicò sistematicamente.
Su quali opere ha condotto le sue analisi? Sia sulle storie di San Francesco del 1297-1300, nella Basilica Superiore di Assisi, che sulle storie di Cristo e della Vergine del 1304-1306, nella cappella degli Scrovegni a Padova. In più, ho fatto qualche incursione nelle opere di pittori contemporanei di Giotto.
Che profilo ne esce del pittore fiorentino? In base alle mie conclusioni, Giotto va riletto in chiave contemporanea, imprenditoriale. Vissuto secoli fa, fu assolutamente padrone delle tecniche della narrazione secondo un alfabeto visivo che è lo stesso cui oggi attingono per le loro creazioni massmediologi e pubblicitari. Con una sensibilità per la gestione dei cantieri e per l’organizzazione del lavoro all’interno della sua bottega che ne fa a tutti gli effetti un imprenditore. Altro che ingenuo pastorello!.
Come distribuiva le mansioni ai suoi lavoranti? Probabilmente la base era un progetto a tavolino, in cui organizzava lo spazio dell’affresco in moduli. In ogni modulo incasellava un personaggio o un elemento, la cui esecuzione materiale veniva poi affidata in buona parte ai lavoranti della sua bottega.
Quindi Giotto fece ampio utilizzo del sistema a rete, applicando alle figure reticoli proporzionati, disegnati sulla base di leggi geometriche precise: quadrato, cerchio, rapporti diagonali a 30 o 45 gradi, canone aureo. Roba che secondo la storia dell’arte “ufficiale” arriva secoli dopo…
Infatti. Secondo Negri Arnoldi questo sistema, ideato dal Ghiberti, fu poi messo a punto dall’Alberti e adottato da Paolo Uccello, ma sfruttato pienamente solo nel 1500.
Tutto ciò fila perfettamente; non fosse che i miei studi evidenziano inconfutabilmente già in Giotto un’applicazione costante di questi reticoli.
Dunque, se abbiamo ben capito, nelle mani di Giotto lo spazio diventa consapevolmente forma chiusa, scenografia all’interno della quale far giocare i personaggi della storia sacra.
I suoi affreschi dovevano rendere accattivanti e comprensibili le prediche fatte dal pulpito nelle chiese a un pubblico incapace di leggere la parola scritta. Il loro primo scopo era comunicare la verità con un uso sapiente del linguaggio visivo, che induceva i fedeli a ripercorrere ed interiorizzare i contenuti delle omelie.
Giotto come Andy Warhol e i contemporanei maghi dell’immagine? In fondo, i manifesti pubblicitari e le immagini della tivù si prefiggono lo stesso scopo degli affreschi giotteschi. Anche loro sono nati per informare e parlare alla gente nel modo più accattivante ed efficace possibile.
Marco Costamagna